Mazzini dittatore Una Repubblica Romana il 9 febbraio di Riccardo Bruno Da dittatore della Repubblica romana, Mazzini commise due errori fatali. Il primo, era convinto che la Francia al dunque avrebbe fermato la sua armata; il secondo, porre Roselli a capo dell’esercito repubblicano. Due errori frutto di quanto rimaneva dell’eredità giacobina del fondatore della "Giovane Italia" e pure della rottura stessa che Mazzini aveva compiuto già nel 1832 con tale eredità. Il ministro degli Esteri di Napoleone Terzo, Alexis de Tocqueville, il grande storico della Rivoluzione francese, si era rivolto al suo Parlamento ripercorrendo quell’esempio, per giustificare l’intervento repressivo. Tocqueville accusava i mazziniani di aver commesso gli stessi orrori che i giacobini avevano compiuto in Francia nella loro campagna di scristianizzazione. Dai banchi le parole del ministro vennero accolte con le risa, poiché tutti conoscevano la mitezza del Mazzini e l’ordine che regnava a Roma. Lo testimoniava proprio Roselli, comandante dello Stato pontificio passato alla Repubblica. Per Mazzini era politicamente come il marchese di Lafayette al comando della Guardia nazionale. Una promessa di rispetto per la Chiesa, così come Lafayette rispettava la monarchia. Mazzini durante il suo esilio in Francia si era legato all’ultimo giacobino storico rimasto in attività, il Buonarroti, ma presto se ne era allontanato. Del Buonarroti non condivideva il piano politico, che esasperava con Babeuf, persino l’egualitarismo di Robespierre. La contrapposizione classista che le sette legate al Buonarroti, gli "Apofasimeni", "i veri italiani", propagavano, veniva giudicata dal Mazzini un autentico ostacolo allo sforzo unitario indispensabile per liberare l’Italia. Mazzini che si presenta alla Costituente romana attacca fazioni e partiti e si erge tutore dell’unità della Repubblica. Teme che possano riprodursi i contrasti ed i conflitti che piegarono il fronte rivoluzionario in Francia fino a decretarne il fallimento. La critica di Mazzini alla rivoluzione francese e dunque all’idealità dei suoi continuatori che si radunavano intorno al Buonarroti è centrato sull’elemento classista. Alla base della rottura fra Mazzini e il vecchio rivoluzionario vi è il germe del socialismo capace di dissolvere il presupposto dell’Unità nazionale italiana. La forma repubblicana se trapassa in socialista è perduta. Se invece si instaura direttamente la forma socialista, si dissolve immediatamente l’unità dello Stato, perché lo scopo del socialismo è la lotta di classe mondiale. Garibaldi, esterefatto di vedersi soppiantare nel comando dal generale Roselli nel comando dell’armata romana, sarà il primo a definire Mazzini "un dittatore", ma il potere dittatoriale è a tutti gli effetti indispensabile al Mazzini, non solo per preservare e guidare la rivoluzione romana nei suoi primi incerti passi, ma anche per assicurarsi che non degeneri come degenerò la Francia nel vuoto di potere tra la morte del re e l’ascesa di Robespierre. Del modello rivoluzionario, la dittatura, anche se temporale, rimane imprescindibile. Robespierre esercitava la volontà popolare e voleva rimetterla al popolo appena superata l’emergenza e lo stesso voleva fare Mazzini. Un mazziniano che novant’anni dopo serviva Mussolini, Italo Balbo, chiese al Duce di ripristinare il voto dopo la conquista di Addis Abeba. Mussolini non ci pensò proprio. Mazzini aveva fatto votare tranquillamente per l’assemblea costituente romana i cittadini della Repubblica, perché il suo prestigio e la sua autorità erano indiscutibili. Lo stesso Garibaldi nel momento di massima frattura, si offerse di militare come soldato semplice, come legionario, a Mazzini mai avrebbe negato la sua spada. Poi la storia insegna che se il governo dei molti è debole, quello dell’uomo solo non necessariamente sa risparmiarsi lo stesso delle afflizioni. Appena la Francia gettò la maschera rispettosa della libertà dei popoli, decidendo per l’intervento, Mazzini avrebbe avuto bisogno di un Garibaldi comandante in capo e pazienza per i cattolici romani. Il Roselli, abboccò subito alla prima manovra dispersiva messa in atto dall’Oudinot e divise il suo esercito sparpagliandolo su Monte Mario dove non c’erano pericoli reali. Gli uomini di Roselli vagavano nella macchia, quelli di Garibaldi davano battaglia al Gianicolo, in condizioni presto disperate. Festeggiamo il nove febbraio, ma non dimentichiamo gli ultimi giorni di luglio quando i giovani volontari italiani dal Manara al Masini, andarono incontro a morte certa contro un nemico più poderoso. L’ardore fu tale che il popolino romano salito sulle mura per vedere la battaglia si scagliò anch’esso contro i francesi. Coltelli, bastoni, pistole più da duello che da guerra. La rivoluzione romana fu romantica prima che illuminista: persa la Repubblica non valeva la pena di vivere. Così avvenne che la Repubblica vide perire le sue giovani generazioni, le migliori, sin dal primo momento. |